Foto di Assisi

Fratelli e sorelle nell'isolamento

La pandemia da Covid-19 che ha avuto il suo apice tra il 2019 e il 2022 è stata una importante prova per i limiti sociali, economici, psicologici e spirituali di tutta la società.

Per quel che mi concerne più direttamente è stato un faccia a faccia diretto con la mia morte, data per certa più volte, con i miei quasi 5 mesi di ricovero, dei quali un mese e mezzo in terapia intensiva, di cui 24-25 giorni in sedazione profonda, con annessi arresti cardiaci e varie complicazioni.

Provo quindi a raccontare di seguito l'intreccio di aspetti umani, psicologici e spirituali attraverso la pubblicazione di un intervento orale che mi proposero di fare al convegno annuale CISM, ISM, USMI e Ufficio nazionale per la pastorale delle vocazioni della Conferenza Episcopale Italiana sul tema “C’è dell’oro in queste ferite. Traumatizzati o trasformati? La Vita Consacrata durante e dopo il Covid-19”, 15 – 19 novembre 2021, Collevalenza (PG).

L'intervento era duplice: il mio superiore di allora che raccontava, sui frati rimasti in convento, come essere fratelli anche durante questa pandemia. Io raccontavo la mia esperienza e interpretazione successiva (non pensavo decisamente a Foucault quando ero immobile in rianimazione, muto con un grande foro nella gola e col cervello inondato di oppiacei) dell'essere frate in una stanza di rianimazione.

Il testo che riporto di seguito, elaborazione dell'intervento orale, corrisponde a quello inviato per gli Atti del convegno, con lievi modifiche per contestualizzare per chi legge ora e non era presente al convegno. Lo intitolai: "Abitare un’eterotopia. Segni cristiani di speranza e vissuti comunitari da un letto di terapia intensiva in tempo pandemico".

Introduzione: abitare un’eterotopia

Il coronavirus SARS-CoV-2 ha creato un insieme di situazioni inedite di isolamento che fanno riflettere sui modi e sui luoghi in cui essere comunità. È, innanzitutto, a mio avviso utile cercare di dare un senso a queste situazioni. Per quel che riguarda la mia esperienza e il legame con la mia comunità religiosa dei Frati Minori Cappuccini di Viterbo, esperienza che cercherò qui di raccontare succintamente, mi sono ritrovato catapultato molto velocemente da un convento a un reparto di terapia intensiva.

Ero consapevole che gli studi clinici sui farmaci per trattare questo virus erano, quanto meno, in una fase pionieristica, con alcuni farmaci che fornivano qualche speranza ma anche una concentrazione di trial farmacologici su prodotti che potevano essere considerati di dubbia efficacia [1]. Con questa consapevolezza il 19 ottobre 2020 è stata rilevata la mia positività al SARS-CoV-2, il 20 sono finito in Pronto Soccorso, il 21 a medicina interna, il 24 in terapia subintentiva, il 27 in terapia intensiva. Vengo posto praticamente subito in sedazione profonda (non troppo diverso dal coma indotto), rischio di morire varie volte, dopo circa due settimane mi viene praticata una tracheotomia, vengo risvegliato alcune volte ma non ne ho ricordo, fino al 25 novembre 2020 in cui inizia il mio risveglio, quello definitivo. Rimarrò fino all’11 dicembre quando sarò trasferito in terapia subintesiva, poi neurologia, a gennaio in riabilitazione per concludere il mio percorso il 15 marzo 2021, dopo quasi 5 mesi di ospedalizzazione. Al risveglio dalla sedazione profonda mi ritrovo, quindi, in una stanza di rianimazione, sotto oppiacei che mi facevano pensare di essere in una clinica svizzera (immaginavo di essere trattato molto bene: sono un grande ottimista), senza poter parlare per via della tracheotomia, senza potermi muovere per il tanto tempo passato immobile e in sedazione profonda. I miei nervi sparavano fuochi d'artificio in tutte le lingue, mi veniva da urlare appena mi sfioravano (santo e santa chi mi accudiva). Occorre intanto, a mio avviso, tentare una lettura di questa situazione, per poi procedere a pormi alcune domande relative al tema del mio intervento.

Ci viene in aiuto Michel Foucault delineando, durante una conferenza di architettura, il costrutto di eterotopia [2]. Egli concettualizza alcuni spazi i quali «hanno la curiosa proprietà di essere in rapporto con tutti gli altri luoghi ma in un modo tale che sospendono, neutralizzano o invertono l'insieme dei rapporti che si trovano, attraverso essi, designati, riflettuti [reflétés, come in uno specchio] e riflessi [réfléchis, cioè pensati]. Questi spazi, in qualche modo, che sono in connessione con tutti gli altri, che contraddiccono tuttavia tutti gli altri luoghi, sono di due tipi principali (ibidem)».

Il primo tipo di spazi sono rappresentati dalle utopie, spazi ideali che però non esistono concretamente. Il secondo tipo di spazi sono rappresentati dalle eterotopie che, potremmo dire, nella pratica invertono ciò che mediante essi viene designato astrattamente. Per esempio un cimitero. Dove si è presenti proprio nello spazio in cui si è assenti, dove tutti i mondi sono collegati (si va in cimitero da tutti i censi e da tutti i luoghi), dove è collegata la vita e la morte.

Così mi pare che sia una stanza di una terapia intensiva, almeno quella dove sono stato io. Un ospedale è luogo per antonomasia di cura e di ritorno alla vita. Per ragioni cliniche una stanza di rianimazione deve lasciare libertà di movimento al personale e tutto ciò che non è ritenuto necessario non è presente. Vorrei qui riflettere non sulle ragioni cliniche, che comprendo, ma sull’impressione che può dare l’assenza di alcuni luoghi e di alcune interfacce, intese come ponte tra due dimensioni. La vita implica relazione, implica alcune funzioni di movimento e di autonomia essenziali. Però nel letto di terapia intensiva dove mi trovavo ero immobile. Muto, perché con un foro nella trachea. E poi alcune scelte architettoniche, effettuate per le ragioni suddette, sembravano fatte per richiamare la morte più che la vita. Non c'era alcun pulsante per chiamare aiuto. E i vivi possono chiedere aiuto. La relazione autonoma era quindi negata. Vita, relazione, senza possibilità diretta di relazione. Non c'era un bagno per i pazienti: le funzioni fisiologiche primarie, quelle dei vivi, a livello pratico erano negate. Il tutto in tempo di Covid-19. Visite vietate, relazioni al minimo.

Tre questioni mi sembrano importanti a partire da questa concettualizzazione.

1. È possibile non solo abitare questa eterotopia, luogo di vita che richiama di continuo la morte, ma pure abitarla, pur essendo stato isolato, comunitariamente, con Dio e con i fratelli?

2. Qui siamo insieme. Per quanto curiosa, la mia esperienza singola sarebbe irrilevante. Ma ha forse, la mia esperienza singola, anche un senso più ampio, paradigmatico, e val la pena presentarla qui a voi?

3. Per ciò che concerneva, in particolare, il mese e mezzo circa passato in rianimazione non è che potessi testimoniare chissà che cosa. Non mi muovevo, in buona parte neppure parlavo. Posso e, in caso affermativo, come posso dare una testimonianza, addirittura comunitaria, in queste condizioni?

Preghiere per tutti: la comunità viveva con me mentre ero isolato

A un anno da questo convegno ero quindi ancora in sedazione profonda. Racconto alcuni aspetti della terapia intensiva, che non conoscevo, per capire meglio il resto delle riflessioni.

In rianimazione non ricordo neanche di esserci arrivato. La situazione era drammatica a Viterbo. Era il livello di picco del Covid-19 e i vaccini non erano ancora disponibili.

Non sapevo bene che mi capitava e subito mi ritrovai, solo, in un altro mondo. Spogliato del saio e di buona parte dei supporti che avevo a disposizione. Quando la mia comunità è riuscita, con molta fatica, a trovare un'ambulanza per me già da subito ho constato la complessità degli eventi. Arrivati al Pronto Soccorso scopro dall’ambulanza che il letto previsto per me non c'era più. Ho atteso una quarantina di minuti. Al pronto soccorso molta confusione: sistemati in emergenza meglio che si poteva, il personale sanitario molto stressato che talvolta riusciva a tenere a bada i pazienti solo gridando. Molti pazienti positivi al covid-19, in stato confusionale, vagavano per tutto il salone del pronto soccorso covid-19, toccando e quindi infettando i vari dispositivi sanitari. Io ogni tanto ruscivo a inviare dei messaggi dal cellulare (sistemato per terra) sulle mie condizioni e pensavo che da poco era morto un confratello corso con cui condividevo certe condizioni (es. il peso eccessivo). Ero quindi consapevole che sarei potuto morire.

Poi il trasferimento in medicina, sfinito, non mangiavo da dieci giorni e la febbre era fissa a 38-40. Anche per andare al bagno dovevo togliere la maschera dell'ossigeno attaccata al letto e non respiravo. Ci passavano una bottiglietta d'acqua da mezzo litro al giorno ma avevo, come ho detto, la febbre fissa a 38-40. Una infermiera amica del convento mi faceva arrivare dell'acqua ogni giorno.

Poi in terapia subintensiva. Prigioniero di quel casco con una marea di ossigeno che tentavo di togliere anche in maniera agitata (accompagnando con urla) per degli attacchi di claustrofobia.

Finalmente in intensiva e subito in sedazione profonda. Ma non ricordo neanche di esserci arrivato, ricordo solo il terzo e ultimo risveglio dalla sedazione in cui sono entrato subito.

Mi sveglio immobile e senza la possibilità di parlare. Che senso può avere parlare qui di comunità?

Nudo dentro un letto di rianimazione. Senza saio, senza il numero di iscrizione all'ordine degli psicologi, senza memoria mentre ero in sedazione profonda, senza possibilità di parlare da sveglio, poi senza cellulare, impossibilitato a muovere un muscolo e a compiere le più banali attività, urlante dal dolore appena mi toccavano anche solo per lavarmi, terrorizzato perché non sapevo bene come sarebbe andata a finire. Ma stranamente affidato e fiducioso.

Anche in questo stato ero considerato un frate, membro di una comunità, di un Ordine.

La rianimazione di Viterbo è stata, nonostante il caos che vi ho raccontato, meravigliosa per certi versi. Ero un po' la loro mascotte. Si era quasi certi che sarei morto.

Ma grazie a Dio e alle preghiere di mezzo mondo mi sono svegliato. Ma davvero alle preghiere di mezzo mondo. Appena ho riavuto il cellulare ho risposto mi pare a 400 messaggi WhatsApp in due giorni. Ed erano una minoranza, perché WhatsApp dopo un po' che non li leggi cancella i messaggi dal server centrale. Ho poi installato anche un’altra app di messaggistica che ritenevo meno diffusa. Le ultime parole famose. Dopo pochi secondi mi scrive, gentilissima, l'Abbadessa delle clarisse corse. E mi mostra qualche giorno dopo anche un messaggio di felicitazioni della Abbadessa delle Clarisse di Troyes. Fanno adorazione perpetua. E avevano appeso una mia foto in Coro per pregare tutti i giorni per me. Poi mi sono arrivati i messaggi tenerissimi di una “sorellina adottiva” carmelitana. Diabetici. Poi quelli di tante altre persone, religiose e laiche. In Africa, in Asia, negli Stati Uniti, in Europa e in Russia. Un miracolo. È stato un momento di unione per la Sardegna, mi avrebbe poi detto il mio Ministro provinciale.

E in reparto? Un disastro. Sono partite le rivoluzioni. Non parlavo a causa della tracheotomia (l'aria non arrivava alle corde vocali) ma, nonostante i dubbi del personale ("ci vuole tempo per recuperare il movimento"), dopo 3-4 giorni che ero sveglio ho iniziato a chiedere di poter scrivere in una lavagnetta. Che mi tenevano ferma e io provavo a scrivere. Ero il terrore del personale. Dorian che chiedeva la lavagnetta voleva dire perdere almeno venti minuti di lavoro.

Lavagnetta con scritta tremante: "Fai dire a Samuel [mio fratello], per fav., che cerco di recuperare cell"
Lavagnetta, tenuta immobile dal personale sanitario, con mia scritta tremante a causa della perdita di buona parte della massa muscolare: "Fai dire a Samuel [mio fratello], per fav[ore]., che cerco di recuperare cell[ullare].". Il messaggio fu trasmesso a una infermiera del pronto soccorso di Belcolle a Viterbo, poggiato al vetro della finestra della rianimazione (è una foto fatta da lei col suo cellulare). Costei, sarda, avendo saputo del mio stato di salute tramite un amico comune, aveva avviato in ospedale un gruppo di preghiera per me e trasmetteva informazioni sul mio stato di salute

 

Alcune infermiere o OSS, non distinguevo per via della tuta spaziale che rendeva tutti uguali, hanno iniziato a chiedermi se potevo benedirle. Ho spiegato, come riuscivo, che non potevo, ma avrei potuto pregare per loro. Quindi ogni giorno alcune oss o infermiere si avvicinavano e io tracciavo, come potevo, verso di loro un segno di croce. Anche qui, da solo, nudo, ero considerato un frate, parte di un ordine religioso e come tale venivo trattato.

Nel mio stato mentale alterato (causato dagli oppiacei), dimenticando che non potevo muovermi, chiesi di andare a messa. Una donna mi rispose di no, ma domenica sarebbe venuta a cercare di far mettere in reparto Radio Maria, anche se non era di turno quel giorno. È venuta davvero. Il colpo di Stato, far diffondere Radio Maria con la radio del reparto, non le è riuscito. Ma il suo gesto è stato molto bello. Questa donna non so se si occupasse solo del paziente, ma immagino anche del frate, della comunità religiosa che rappresentavo.

Preghiere da tutti: l’esperienza non è solo mia ma, in me, viveva la speranza di tante persone

A un certo punto, nel finestrone del corridoio esterno alla rianimazione, appare un’infermiera. Mi parlava attraverso una radiolina. Mi disse che non la conosco ma, tramite delle persone che io conosco, sta fornendo spesso informazioni su di me a mio fratello.

Spero di riuscire a trasmettervi il senso di liberazione di quella notizia. Io ero finito in rianimazione. Ricordavo solo "ti stiamo portando in rianimazione". Non sapevo quanto tempo era passato e nessuno me lo spiegava. Non sapevo se in convento sapevano qualcosa di me e nessuno me lo spiegava. Non sapevo se mio fratello e mia madre sapevano qualcosa di me e nessuno me lo spiegava. Non sapevo perché non avevo vestiti e nessuno me lo spiegava. Non sapevo dove fosse finito il mio cellulare, i miei occhiali, se era intero, era rotto, non sapevo nulla. Potevo solo stare immobile a fissare un punto. Magari fissare la finestra se qualcuno mi ruotava il letto da quelle parti. Sì, sono un complottista positivo, quindi sentivo che stava andando bene. Però quella notizia fu liberante lo stesso.

La lavagnetta in cui scrivevo e di cui vi ho parlato da oggetto inanimato prende vita. Mando con essa un messaggio a mio fratello: "fai dire a Tizio, per favore, che cerco di recuperare il cellulare". Non sapevo bene come, ma avevo una gran voglia di tornare.

L'infermiera, inoltre, mi riferisce che si era creato un gruppo di preghiera per me al pronto soccorso, dove lei lavorava. Basta un saio, anche se non lo vedi, e tutti pregano per te. Sottolineo ciò che dico perché mi rendevo e mi rendo conto che, anche nudo, portavo sempre con me tutta la comunità, tutto l'ordine, tutta l'importanza e la potenza simbolica e la grazia di coloro dei quali, immeritatamente, ero in quel momento simbolo. Quindi anche un gruppo di preghiera al pronto soccorso di Viterbo. E con la mia guarigione guariva anche la speranza di tanti. Ero in quel momento non io, non la mia comunità ma mi sembrava di portare, davvero «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi [3]».

Questa infermiera era amica di un’altra infermiera che conosceva i cugini di un amico sardo, il quale conosceva mio fratello. Quindi attraverso un percorso abbastanza articolato le informazioni fluivano a mio fratello e da mio fratello (naturalmente anche l’ospedale e i confratelli erano in contatto con lui).

Poi, appena mi è stata chiusa la tracheotomia e ho potuto parlare, si è materializzata concretamente anche la mia comunità, venivano a turno a trovarmi ogni giorno alla finestra: la comunità è diventata pian piano presenza reale.

Ricordo anche la presenza della comunità anche in un altro modo. Pian piano, per recuperare qualche muscolo, ho iniziato a fare un po' di fisioterapia a letto. I fisioterapisti e le fisioterapiste ruotavano. Accadde che vidi una fisioterapista una volta e poi la settimana dopo. Nel vedere i miei progressi dopo una settimana quella volta ha iniziato a piangere. Ricordando - me lo disse allora - di aver avuto da piccola, come direttore spirituale, un frate della mia comunità. In quel momento ero, indegnamente, anche la mia comunità.

Cosa potevo testimoniare immobile in un letto? Fiducia in Dio e pazienza

Passato in terapia subintensiva che potevo testimoniare, immobile a letto? Fiducia in Dio, un briciolo di pazienza, affidamento. Una OSS mi ha quasi adottato. Ne abbiamo combinate con lei. Un periodo, non capivo perché, per circa 8 giorni mi hanno dato da mangiare sempre gli stessi cibi tant’è che, insofferente al cibo, non riuscivo più a mangiare quasi nulla. Forse, in buona fede, qualcuno pensava che non fossi in grado di deglutire. La questione era meno grave: ero piuttosto molto lento. Finché, con la complicità della mia “OSS adottiva” e con la comunità, abbiamo aggiustato il tutto: lei si fermava tutto il tempo necessario ad imboccarmi e abbiamo comunicato che ero in grado di deglutire. La comunità mi ha fatto arrivare del cibo preparato dal superiore, previe le necessarie procedure di sanificazione e si è visto quindi che il mio problema non era il deglutire, ma il cibo sempre uguale. Poi la mia OSS adottiva, dopo che sono uscito, ha avuto seri problemi di salute e a mia volta la mia comunità ed io pregavamo per lei. Si è creato un legame che è andato anche oltre le differenti confessioni religiose: ci sentiamo tuttora.

Quindi, in conclusione, è possibile abitare comunitariamente, in Cristo, anche un'eterotopia quale può essere un luogo di vita e morte come un letto di ospedale? Non solo è possibile ma è, credo, sempre più necessario uscire ed abitare cristianamente nuovi spazi, per la maggior gloria di Dio. Questi luoghi di confine sono le nuove periferie e occorre essere strumento affinché la grazia di Dio risplenda anche in questi ambienti talvolta tanto bui ma che anelano alla luce.

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[1]Ibba, M. L., Soru, D. e Floris, M. (2020), Overview of the First 6 Months of Clinical Trials for COVID-19 Pharmacotherapy: The Most Studied Drugs, Frontiers in Public Health, 8, https://doi.org/10.3389/fpubh.2020.00497.

[2] Foucault, M. (1984), Des espaces autres (conférence au Cercle d'études architecturales, 14 mars 1967), Architecture, Mouvement, Continuité, 5, 46-49.

[4] Concilio ecumenico Vaticano II: Gaudium et spes. Costituzione pastorale sulla chiesa nel mondo contemporaneo, https://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19651207_gaudium-et-spes_it.html (accesso: 26/03/2023).